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Rossano (Cosenza) - Filareto: “Qual e’ il senso del 1° maggio 2016, festa del lavoro?


Quanti ieri hanno potuto festeggiare ?  Quanti hanno avuto l’animo di festeggiare?  Eppure ieri si è fatta memoria istituzionalizzata del sacrificio e del martirio di migliaia di lavoratori, che hanno pagato con la discriminazione, il carcere, la morte la rivendicazione del diritto di ogni cittadino ad avere un lavoro e di un lavoro dignitoso per orario, condizioni, salario. Perché il lavoro non è una merce.  Il lavoro è un valore che produce valori.  Il lavoro è un valore umano.  Un valore del lavoratore.  In ciò che realizza il lavoratore manifesta e realizza se stesso, la sua intelligenza, la sua creatività, il suo vissuto, la sua natura umana.  Perché il lavoratore è sempre un cittadino, una persona, un fine in sé, che ha parità di diritti-doveri ed è uguale a qualsiasi uomo-cittadino-persona-fine in sé. Queste espressioni grondano sofferenze e sangue, sono il risultato di dure conquiste e,in Italia, soltanto nel 1948 hanno ottenuto un riconoscimento in una serie di articoli della nostra Carta costituzionale.

-  “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…” (art. 1), il lavoro è il fondamento della Repubblica.

- “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4), perché il lavoro è uno dei diritti inviolabili dell’uomo-cittadino (art. 2), il cui godimento garantisce l’eguaglianza non solo giuridica ma anche economico-sociale.

-  Anzi “è compito della Repubblicarimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).

-  “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni…” (art. 35), assicurando al lavoratore:

il “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro…” (art. 36),

alla donna lavoratrice “gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore…” (art. 37),

ai cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere e ai cittadini in condizioni “di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” anche “il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” (art. 38),

il diritto di associazione in organizzazioni sindacali che “hanno personalità giuridica” e compiti di rappresentanza dei cittadini-lavoratori (art. 39),

la tutela dei diritti dei cittadini-lavoratori attraverso “il diritto di sciopero…” (art. 40), il riconoscimento chel’iniziativa economica privata e libera non si possa svolgere “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla dignità umana…” (R. 41) e che “la proprietà privata” deve avere una “funzione sociale”, il fine dell’ “utilità generale” e del “carattere di preminente interesse generale” (artt. 42 e 43) e di bene comune.

Alla distanza di 68 anni, i suddetti articoli della “Costituzione economica” sono ancora considerati non di valore “normativo”, ossia “tassativo” e obbligatorio, e quindi “fondanti”, quali erano nelle intenzioni dei Padri costituenti, ma astrattamente programmatici: continuano ad avere “una loro interpretazione come meri enunciati programmatici da confinare in una specie di preambolo” (Giuseppe Dossetti). Perciò il lavoro resta un diritto sostanziale e sociale negato. Come il diritto ad una giustizia rapida e uguale per tutti; come il diritto alla salute e alla vita ecc.  Ma senza il lavoro-valore al cittadino mancano i mezzi per vivere, mancano le condizioni per essere veramente libero e per esercitare una dignità fiera e autonoma.  Senza il lavoro c’è l’abiezione fisica e morale; c’è la marginalità e la deriva sociale; c’è la negazione dell’uomo; c’è la fine dell’uomo. “Il diritto al lavoro non può essere messo in discussione da nessuno, nemmeno dallo Stato”.

Di fronte al reiterato diniego del ceto politico e dirigente, sempre più autoreferenziale, sempre più distante dai bisogni e dalle speranze della gente, sempre più ostinato a tutelare i privilegi dei potenti e prepotenti, al cittadino, singolo e associato, non resta che la resistenza e la reattività mediante la partecipazione diretta e responsabile alla vita sociale e politica, mediante la riappropriazione della sua “sovranità, che appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1). Francesco Filareto - Anpi  Rossano


di Redazione | 02/05/2016

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